È stata dolorosa e per certi versi vigliacca l’esclusione a cui è stato costretto Nicola Dutto nel corso dell’ultima edizione della Dakar. Il pilota piemontese, paraplegico dopo un incidente nel 2010, ha dimostrato coi numeri di poter competere coi normodotati nel raid più famoso del mondo. L’ha fatto in tutto il suo percorso di avvicinamento e anche nei quattro giorni di gara. Solamente quattro, prima che la giuria decidesse di escluderlo con un vero e proprio colpo basso. Noi l’abbiamo incontrato ieri, in occasione di una visita amichevole negli stabilimenti Acerbis e abbiamo colto l’occasione per farci raccontare la sua verità e molto altro.
Nicola, partiamo da quel dannato giorno dell’esclusone?
“Dopo la prima prova speciale del quarto giorno di gara, ho chiesto a un addetto di poter saltare la seconda prova andando al bivacco, cosa ammessa dal regolamento. Ricevuto l’ok, mi dirigo verso l’asfalto per andare al CP3 e ricevere la penalizzazione. Io avevo qualche dubbio sulla cosa, ma alla fine mi convinco. Una volta arrivato al bivacco mi dicono che avrei dovuto seguire il percorso della prova speciale, sullo sterrato e sono stato escluso. Ho mostrato le mie ragioni, ma mi hanno risposto che la decisione era presa. Il giorno dopo sono stato riammesso nella lista dei partenti ma era troppo tardi e di fatto risulta che sono stato io ad abbandonare la gara ma non è così”.
Come spieghi l’atteggiamento della commissione di gara?
“Secondo me hanno pensato che io potessi fare una o al massimo due tappe e invece ho dimostrato di poter competere. Dipende tutto da un fattore: la direzione di gara mi considera un paraplegico o un pilota? Io sono prima di tutto un pilota e credo di aver fatto vedere che posso andare forte. Forse hanno avuto paura che l’immagine della Dakar, vale a dire una corsa ai limiti dell’impossibile, venisse scalfita dalla mia presenza. Sono amareggiato”.
Come giudichi l’esperienza nel suo complesso?
“Escluso il finale, molto bella. Ho trovato tanto affetto tra gli altri piloti, anche da chi finiva le prove dietro di me. Poi c’è tanto calore da parte del pubblico, ma soprattutto sono contento perché mi sono presentato bene e penso di avere raggiunto un alto standard di guida. Mi sono divertito tanto a guidare, anche con i miei ghost rider. In moto era come essere un’unica persona”.
Com’è nata l’idea di partecipare alla Dakar?
“L’idea è nata dopo un lungo percorso. Da quando sono risalito in moto, abbiamo deciso di prendere parte a tutte le gare in cui ero stato protagonista prima dell’incidente. Fatte tutte queste gare, mancava la Dakar e così ci siamo attivati, ormai due anni fa, per poter partecipare. L’organizzazione richiede un certo palmarès e dopo averlo presentato mi hanno voluto vedere all’opera nel deserto. Insomma, ho dimostrato in sella di poterci stare”.
Come hai fatto guidare su terreni così tortuosi?
“Utilizzo una moto speciale. Con la mano sinistra gestisco freno posteriore e cambio, con la destra acceleratore e freno anteriore. Molto importante è la posizione di guida che è diversa da quella canonica, dovendo stare sempre seduto. Io prediligo i boschi anche per avvertire meno colpi alla schiena”.
Immagino che anche la preparazione fisica sia determinante.
“Certo, mi alleno molto in moto ma anche in palestra. Una buona preparazione ti consente di concentrarti sulla guida. Quando sono a casa mi alleno tanto sulla parte tecnica”.
Quali sono i programmi per il resto della stagione?
“Devo ancora valutare insieme agli sponsor e Ktm. Penso di correre in Brasile e poi mi piacerebbe tornare a gareggiare negli Stati Uniti”.
Un’ultima cosa: pensi di tornare alla Dakar l’anno prossimo?
“In questo momento ti dico di no. È un grosso impegno, fisico, psicologico ed economico. L’epilogo è stato amaro. I piloti non vengono trattati come meritano: parlo di me, ma anche degli altri che devono accettare condizioni molto gravi”.