Certe vetture destinate a fare la storia nascono spesso come una sorta di ardita scommessa tecnica. Come quella che dovette affrontare l’ingegner André Lefebvre, ingegnere aeronautico con un buon passato da pilota, poi progettista alla Citroën.
Grande sostenitrice delle idee originali ed innovative, la Casa del Double Chevron gli aveva affidato una sfida certamente molto stimolante, ma che conteneva anche una serie di problemi dalla soluzione quasi impossibile.
La nuova auto che voleva Citroën doveva essere una sedia a sdraio sotto un ombrellone, con quattro ruote, capace di portare due contadini e le loro mercanzie nel massimo della sicurezza e del confort. E fin qui, anche nel 1936, ci si poteva arrivare.
Doveva anche costare poco ed essere riparabile coi ferri con cui si aggiusta il trattore. Già qui c’è qualche difficoltà in più, soprattutto per i costi elevati delle materie prime. Poi il capitolato diventava più difficile da soddisfare, specialmente quando diceva che l’auto doveva consumare non più di quattro litri per cento chilometri, doveva essere facile da guidare e stabile su qualsiasi tipo di strada.
Impossibile, sembrava dirsi Lefebvre mentre rileggeva quelle poche righe arrivate dal Presidente e Direttore Generale di Citroën, il pragmatico Pierre-Jules Boulanger. Poggiando i fogli sul tavolo, il giovane ingegnere, che durante la Grande Guerra aveva maturato una buona esperienza nel settore aeronautico, non si perse d’animo e rilesse le parole che aveva fatto scrivere sul muro dietro alla sua scrivania: tutti pensavano fosse impossibile, tranne uno stupido che non lo sapeva e… l’ha fatto.
La soluzione al capitolato impossibile di Boulanger non poteva che essere una nuova auto, una vettura ripensata completamente, partendo da un foglio bianco, come Lefebvre aveva già fatto con la Traction Avant e come farà pochi anni dopo per la DS.
Così fu anche per la 2CV (che si chiamava ancora TPV, sigla di Toute Petite Voiture, o vettura piccolissima): nuova sospensione per andare su ogni tipo di strada, e Lefebvre aggiunse per andare anche dove non c’è la strada e un motore ripensato da zero, ispirato a quello delle motociclette ovvero un boxer bicilindrico che per la sua architettura riduceva le vibrazioni anche rispetto ai tradizionali quattro cilindri di piccola cilindrata e consentiva di consumare 4 litri per cento chilometri (ma Lefebvre ritenne possibile scendere a 3 litri per cento chilometri), dall’architettura semplice ottenuta con il raffreddamento ad aria che eliminava la necessità di radiatore, pompa dell’acqua e manicotti… tutti elementi costosi e che potevano anche rompersi.
Infine restava il problema del costo delle materie prime, l’acciaio in particolare: come risolverlo? Alleggerendo la vettura! C’est facile! Quindi via il tetto e il cofano portabagagli, rimpiazzati da una capote in tela, facile da manutenere (e da cambiare), economica e funzionale perché permetteva, oltre che di viaggiare en plein air, anche di caricare oggetti ingombranti come gli attrezzi agricoli, magari asportando il sedile posteriore che diventava una comoda panchina!
I primi prototipi della TPV furono realizzati in lega di magnesio, con carrozzeria in duralluminio, una lega (aeronautica, ça va sans dire) più resistente e con deformazione al calore ridotta rispetto all’alluminio. Il problema era che il magnesio aveva la brutta tendenza ad incendiarsi come la capocchia di un cerino e dopo un paio di incidenti durante le prove, il telaio tornò alle normali leghe ferrose, restando comunque leggerissimo grazie alla struttura che anticipava quella dei pannelli a nido d’ape.
La guerra fermò solo ufficialmente gli studi sulla TPV, che in realtà proseguirono a livello teorico ed anche pratico (soprattutto sul motore) sulla pista prove della Ferté Vidame, lontano dagli occhi degli occupanti.
Alla fine del conflitto, con l’alluminio reso introvabile dalla distruzione provocata dagli eventi bellici, Lefebvre e lo stilista Bertoni ridisegnarono la carrozzeria della TPV, conferendole un aspetto armonioso e simpatico.
L’auto rimase leggerissima ed il suo motore di 375cc le permetteva di percorrere i fatidici 100 chilometri con tre litri di benzina; l’eccezionale sospensione a grande flessibilità, complici le ridotte prestazioni velocistiche, le consentiva un’andatura morbida indipendentemente dal fondo stradale; la scocca con il grande tetto in tela che andava dal parabrezza anteriore al paraurti posteriore le permetteva una facilità di carico superiore a quella richiesta dal capitolato impossibile di Boulanger.
Era nata la 2CV!