Dagli impianti di riscaldamento alla produzione di moto ad alte prestazioni: questo è stato il salto di qualità della Bimota, azienda nata nel 1966 a Rimini il cui nome è l’acronimo dei cognomi dei tre soci fondatori: Bianchi, Morri e Tamburini. La forte passione di quest’ultimo per le due ruote consentì alla Bimota di costruire i primi modelli del marchio, ottenuti grazie a speciali kit di trasformazione che modificavano moto provenienti dalla concorrenza.
Il primo esempio è del 1975, quando proprio Massimo Tamburini creò una special su base Honda CB 750 Four con kit Bimota comprendente telaio, forcella e forcellone: si trattava della HB1, alla quale seguirono modelli dotati di motori Honda, Kawasaki e Suzuki commercializzati sia come kit di trasformazione, sia come moto già completamente assemblate. Queste diventarono il punto nevralgico della produzione solamente negli anni ’90, quando Bimota puntò molto su una ciclistica di elevata qualità assieme a motori di derivazione Ducati, Suzuki e Yamaha.
Durante gli anni ’80 Massimo Tamburini lasciò campo libero all’ingegnere Federico Martini, artefice di quella DB1 con motore Ducati del 1985 che salvò dal tracollo finanziario la Bimota dopo il crollo delle vendite che generò il prototipo della Tesi dell’anno precedente, sì rivoluzionaria ma non ancora pronta per il lancio sul mercato. Nello stesso periodo la Bimota entrò nel mondo delle corse, vincendo all’esordio il Mondiale 350 del 1980 con Jon Ekerold. Sette anni dopo arrivò il trionfo nel Mondiale TT F1 con la YB4R di Virginio Ferrari, mentre nel 1988 Davide Tardozzi vinse la prima gara della storia del neonato Mondiale Superbike in sella a una YB4 in versione EI.
Parallelamente la Bimota continuò la produzione delle moto stradali con motori Ducati e Yamaha (poi definitivamente sostituiti con quelli Suzuki), proponendo per la fine degli anni ’90 due progetti particolari: la Supermono e la 500 V-Due. All’alba degli anni 2000 l’azienda emiliana tornò a competere nel Mondiale SBK con Anthony Gobert e la SB8K, ma in poco tempo fu costretta a fare i conti con alcuni problemi finanziari che culminarono con la dichiarazione di fallimento e lo stop della produzione.
Nel 2003 gli investimenti del milanese Roberto Comini riavviarono l’attività della Bimota, che su disegni di Sergio Robbiano lanciò la DB5 con forcellone a traliccio e carenatura integrale e la sua derivata in salsa naked, la DB6 Delirio. Nel 2006 fu proposta la Tesi 2/D, seconda reincarnazione del progetto originale realizzata nella versione S (biposto) ed R che ben presto lasciarono spazio al modello definitivo, la 3/D sviluppata in collaborazione con la Vyrus.
L’arrivo del 2007 vide la presentazione dell’innovativa DB7 disegnata da Enrico Borghesan, che presentava la soluzione tecnica della sospensione posteriore infulcrata nel motore e il telaietto posteriore autoportante completamente in carbonio. Nonostante le novità e l’interesse da parte del pubblico, la gestione dell’azienda diventò tuttavia ben presto difficile per la direzione Comini, che nel 2013 cedette la Bimota ad investitori svizzeri.
Da quel momento in poi le attività della casa riminese si sono ridotte drasticamente: ad oggi lo stabilimento originario è stato smantellato per dare vita a una nuova fabbrica sempre a Rimini, che garantisce l’assistenza per le moto già vendute. La produzione mantiene in listino la Supersport BB3 (utilizzata nel 2015 con la versione Trofeo nelle corse su strada, tra le quali il TT e la Northwest 200), la Tesi 3D, la naked DB9 e la Superbike DB8 con motore Ducati. I progetti per il futuro? L’idea è quella di tornare a far splendere il marchio Bimota con una produzione più regolare per ritagliarsi quella nicchia di mercato di moto esclusive completamente realizzate in Italia.
Le moto realizzate dalla Bimota sono considerate delle piccole opere d’ingegneria italiana: fin dai tempi dei kit di trasformazione applicati a telaio e ciclistica, le moto dell’azienda emiliana si sono distinte per la loro qualità costruttiva di primissimo livello e per alcune soluzioni innovative che le hanno rese uniche nel segmento delle supersportive.
Un esempio? La Tesi degli anni ’80, una moto avveniristica con sospensione anteriore dotata di forcellone a doppio braccio al posto della classica forcella telescopica. Questa modifica permetteva di separare lo sterzo dalla sospensione, in modo da limitare l’affondamento della forcella in frenata e migliorare la stabilità e la tenuta di strada.
Un’altra caratteristica delle Bimota è quella di utilizzare motori di diversa provenienza per i propri modelli: nel corso della storia questi sono stati battezzati con delle sigle che seguivano uno schema predefinito, costituito da due lettere e un numero. La prima indica il costruttore del propulsore (D per Ducati, H per Honda, K per Kawasaki, S per Suzuki e Y per Yamaha), la seconda è la B di Bimota, mentre il numero rappresenta il modello progressivo dotato dello stesso propulsore.
Le uniche Bimota che non hanno seguito queste regole (applicate per la produzione in serie) sono state la Tesi, la Supermono e la 500 V-Due: quest’ultima è stata l’unica dotata di motore realizzato in casa, mentre le altre due erano spinte da propulsori derivati rispettivamente dalla Ducati 851 e dalla BMW F 650. Per quanto riguarda la ciclistica, le Bimota hanno sempre potuto vantare dei componenti al vertice della categoria, mentre il design scelto dai loro progettisti le ha rese dei prodotti raffinati, che solo gli appassionati del marchio possono apprezzare fino in fondo.
Le moto che hanno fatto la storia della Bimota derivano tutte dalla HB1, ottenuta trasformando una Honda 750 con l’apposito kit di trasformazione progettato da Massimo Tamburini. La filosofia della casa riminese, infatti, è sempre stata quella di sfruttare motori di provenienza esterna con raffinata componentistica realizzata in casa, come è stato per la rivoluzionaria Tesi con forcellone anteriore. Da menzionare tra i modelli iconici anche la DB1, prima Bimota dotata di motore Ducati derivato dalla 750 F1, la YB4R, portata al successo da Virginio Ferrari nel Mondiale TT F1, e la YB4 EI, che permise a Davide Tardozzi di vincere la prima gara della storia della Superbike.
Altrettanto importanti sono state la SB8K, che con Gobert vinse la seconda gara della stagione 2000 al ritorno tra le derivate dalla serie, la Supermono, progetto con motore monocilindrico da 650cc capace di erogare 48 cavalli di potenza, la 500 V-Due, che presentava il primo propulsore due tempi ad iniezione elettronica, la DB7, che sfruttava tecnologie direttamente derivate dalla MotoGP, e la HB4, costruita per il ritorno nelle competizioni durante la stagione 2010 del Mondiale Moto2.