Ducati 916, la più bella di sempre: storia di un mito

Ducati 916 – Italia, terra di motori e di passione. Tanto criticata quanto apprezzata in tutto il mondo per la produzione di oggetti di culto e per la cura del dettaglio che le nostre aziende riservano ad ogni particolare costruttivo. Nell’ambito della moda come in quello motoristico, l’eccellenza è di casa; oggi come ieri, realizziamo alcune tra le più affascinanti motociclette in circolazione e, una su tutte, è stata la pietra miliare che ha popolato il sogno degli appassionati di moto sportive degli anni ‘90: sua maestà Ducati 916. Bellissima, veloce e dalle forme seducenti, è stata concepita all’interno del Centro Ricerche Cagiva quando il direttore generale, nonché progettista dell’icona bolognese, era “tale” Massimo Tamburini.

Accanto all’uomo che ha progettato per primo, nel 1975, la sospensione posteriore a geometria progressiva e che, nel ’78, ha costruito la prima moto con telaio perimetrale, vi è però un’altra figura estremamente importante che merita di essere citata: quella del designer Sergio Robbiano. Sì, perché nel 1991, in CRC, c’era anche lui, e le linee della Ducati 916 così come quelle della Mito EV del 1994, vennero tracciate proprio da Sergio. Il famoso designer diventò indipendente nel 1995 quando aprì lo studio “Robbianodesign” all’interno del quale vennero disegnate alcune Husqvarna, le Bimota DB5 e DB6 Delirio ed anche caschi nonché capi di abbigliamento per alcuni blasonati marchi italiani. Il 30 giugno 2014, il destino lo ha sottratto all’amore dei suoi cari lasciando un vuoto incolmabile sia a livello umano che professionale.

 

COME NASCE UN MITO

La ricerca continua della perfezione era un tema estremamente caro a Mr. Tamburini, il quale aveva istruito l’intero team della CRC: la realizzazione di ogni componente meritava la massima attenzione al fine di raggiungere sempre il livello qualitativo più elevato possibile, sia sotto il punto di vista tecnico/dinamico, che sotto il profilo estetico. I disegnatori, guidati da Massimo Parenti, costituivano uno degli ingranaggi principali del meccanismo; ogni pezzo infatti, è stato ridisegnato infinite volte per soddisfare le idee del project leader che, per la sua creatura, desiderava solo il meglio.

A testimonianza della rivoluzione che la 916 ha portato nel mondo delle supersportive, basti pensare che il posizionamento dell’ammortizzatore di sterzo è coperto da brevetto mondiale e persegue la necessità di compattare al massimo l’area dello sterzo che, a sua volta, si avvale di una piastra superiore sottile, dal design semplice ma funzionale che ha richiesto la stretta collaborazione tra il reparto stile e l’ufficio tecnico, riassumendo in un unico pezzo lo spirito della CRC. Altra chicca della bicilindrica bolognese è la posizione del blocchetto di avviamento, sistemato in un incavo ricavato nella parte superiore del serbatoio; di ispirazione dichiaratamente racing invece, la spartana strumentazione già pronta per l’impiego agonistico senza necessitare modifiche. Il telaio della 916 ha subìto infinite variazioni in corso d’opera fino ad arrivare al traliccio che tutti conosciamo e, ancor di più, ne ha passate il forcellone posteriore, ridisegnato decine di volte prima di giungere alla forma definitiva.

La meticolosità dei progettisti la si può ritrovare anche nelle pedane, frutto di un lavoro certosino per essere dinamicamente perfette ma anche estremamente funzionali sotto il punto di vista tecnico, con scanalature studiate appositamente per lo smaltimento della sporcizia a favore dell’aderenza della suola, qualsiasi sia l’angolo di contatto del piede. Un’altra innovazione portata dalla 916 riguarda i terminali di scarico, motivo di numerose discussioni in CRC: da una parte i sostenitori della forma circolare, dall’altra quelli della forma ellittica, che venne poi scelta in quanto meno ingombrante e decisamente meno legata al settore automotive. Successivamente vennero avanzate considerazioni in merito all’integrazione dei  i terminal nel codone o se lasciarli quali elemento stand-alone: la decisione presa, che tutti conosciamo molto bene, è diventata un elemento distintivo della Casa bolognese. I terminali esterni sono stati concepiti per rendere lo smontaggio più facile ed immediato per l’impiego della 916 in ambito racing e, quando arrivò la Biposto, anche i passeggeri apprezzarono la scelta!

 

Un aneddoto indimenticabile del buon Robbiano fa riferimento proprio a Massimo Tamburini che, a moto ultimata, scelse un giorno di pioggia battente per uscire dalla CRC in sella alla futura 916; al rientro, esaminando le strisce lasciate dalle gocce di sporcizia e di fango sulla carena, spiegò a tecnici disegnatori quali avrebbero dovuto essere le modifiche da apportare per renderla aerodinamicamente perfetta. I test in galleria del vento confermarono le teorie di Massimo e,  i cambiamenti apportati, condissero alla forma definitiva della Ducatona. Il vestitino, più consono ad una 250 del tempo, copriva alla perfezione tutte le parti meccaniche lasciando scoperte le zone necessarie alla manutenzione; le carene a sgancio rapido rendevano semplicissimo l’accesso alle  zone tecniche, idem la modalità di sgancio del codone e del serbatoio, mentre, gli specchi, si rimuovevano con una sola vite. Sotto l’aspetto del design, si è mirato ad ottenere un profilo che risultasse il più aggressivo possibile: gruppi ottici rastremati, muso puntato verso il basso, serbatoio inclinato in avanti e codone rivolto verso l’alto. Il tutto amalgamato con la maestria che solo il CRC avrebbe potuto realizzare.

 

916: LA PERFEZIONE ITALIANA NEL MONDO

Più volte definita quale “più bella motocicletta sportiva della storia”, la Ducati 916 è in grado di affascinare tutti gli appassionati di moto, anche a più di 25 anni dal suo debutto. Dopo le prime sei stagioni nella Superbike, le Ducati 851 prima e 888 poi, necessitavano di essere aggiornate per poter competere con le più evolute moto giapponesi; la regolamentazione della FIM prevedeva che – per poter prendere parte  al campionato del mondo SBK – la moto scelta prevedesse una produzione in serie di 1000 esemplari. Viste le dimensioni della fabbrica di Borgo Panigale rispetto ai colossi giapponesi però, venne fatta un’eccezione e – solo per Ducati – il quantitativo venne ridotto a 200 esemplari.

Il cuore pulsante rimase il bicilindrico a distribuzione desmodromica bialbero a quattro valvole per cilindro ideato da Massimo Bordi ed utilizzato sulla plurivittoriosa 888 guidata da Doug Polen, incrementato di 2 mm nell’alesaggio (arrivando a quota 94 mm e 66 mm di corsa) per arrivare a 916 cc e rinforzato nelle parti soggette a maggior stress meccanico. Il telaio era tutto nuovo e compattissimo, a traliccio e con un nuovo forcellone monobraccio sviluppato sulla base di quello utilizzato da Honda su brevetto ELF France; la forcella telescopica idraulica con steli da 43 mm di produzione Showa (come il mono) venne studiata esclusivamente per questo modello. La moto era talmente evoluta da offrire la possibilità di decidere l’inclinazione del perno di sterzo (24° o 25°) andando così a modificare l’avancorsa (94 o 100 mm). L’impianto frenante Brembo era un punto di riferimento già per l’epoca, con una coppia di dischi da 305 mm all’anteriore e pinze a quattro pistoncini abbinate al disco da 200 mm al posteriore.

Una race replica studiata per le competizioni insomma, che quando venne svelata al pubblico al salone del Motociclo di Milano nel 1993, raccolse immediatamente una valanga di consensi: per aggiudicarsene una, servivano 23 milioni e 950 mila Lire. La prima generazione di questo splendido veicolo erogava 114 cv a 9000 giri e raggiungeva i 100 km/h in 3.1 secondi; apprezzata dalla stampa e dal pubblico, venne dapprima definita “troppo estrema” per la circolazione stradale ma, poco dopo, diventò l’oggetto del desiderio di tutti gli amanti delle moto sportive. Prima della presentazione ufficiale al pubblico, ci fu un episodio che esaltò il DNA racing di questa motocicletta ancor prima di essere ultimata in galleria del vento.

Uno dei sette prototipi costruiti interamente da CRC, venne portato al Mugello e guidato in configurazione originale (fatto salvo per il motore evoluto fornito dal reparto Ducati Corse) da un “certo” Davide Tardozzi: dopo aver messo a punto le sospensioni Showa, la 916 girava 2 secondi sotto il record della pista, con una velocità di punta superiore di 12 km/h rispetto a quella fatta registrare dalla 888 nell’ultima gara sul medesimo circuito. E mentre Tardozzi, Robbiano, lo stilista CRC per antonomasia Orlandi ed un gruppetto di tecnici di Ducati Corse erano ammutoliti per i risultati ottenuti, il solito Tamburini cercava di capire come fare per migliorare ulteriormente la moto nell’ottica di sviluppi futuri.

Nel 1994 la Ducati 916 debuttò nel mondiale SBK vincendolo con Carl Fogarty, un nome che si sarebbe legato al marchio Ducati per sempre. L’inglese vinse anche le edizioni del 1995, ’98 e ’99. Nel 1996 invece, fu Troy Corser ad aggiudicarsi il titolo, sempre in sella ad una 916. I giapponesi, incapaci ci contrastare il dominio del bicilindrico italiano, lavorarono su quella che poi è stata la moto che vinse la stagione 2000 della SBK: la Honda VTR con motore bicilindrico. Appunto.
 

EVOLUZIONE CONTINUA

Dopo la prima serie di 916, Ducati decise di produrre – oltre al modello base – una serie limitata a 200 moto l’anno con caratteristiche decisamente più corsaiole, da utilizzare quale base di partenza per l’utilizzo in campo agonistico. Nel 1994 arriva la Ducati 916 SP (poi ridefinita SP1, prodotta in 310 esemplari) che, oltre ad avere parti in carbonio a profusione e codone monoposto con tabelle portanumero bianche, poteva contare sul mono Öhlins e dischi flottanti in acciaio; esteticamente simile alla versione normale, vantava un propulsore debitamente modificato e capace di erogare ben 126 cv con una curva di coppia spostata verso l’alto.  Cavalcando l’onda del successo di questa versione speciale, nel 1995 arriva la 916 SP2, realizzata in 401 pezzi mentre, il 1996, vede nascere la 916 SP3 della quale ne commercializzarono 497 esemplari. Su tutti questi modelli non potevano mancare gli scarichi Termignoni in carbonio che esaltavano ancor di più quel suono tipico che distingue le Ducati in tutto il mondo. La versione più rara in assoluto però, è la 916 SPa del 1996, costruita in soli 54 esemplari (50 venduti a privati) ed omologata con pistoni da 96 mm e cubatura portata a 955 cc (122 cv e 74 Nm di coppia) per poter prendere parte al campionato AMA Superbike; i collezionisti sanno che per essere considerata tale, una SPa autentica deve avere come codice motore la sigla ZDM955. Per il resto può essere considerata a tutti gli effetti una SP3. Nel 1999, a seguito dell’aumento della cubatura portata a 955 cc sul mercato americano, Ducati decide di fare una cosa simile anche per il mercato europeo. Viene omologato il nuovo motore da 996 cc sempre per partecipare al campionato del mondo Superbike (con alesaggio aumentato a 98 mm mantenendo sempre i 66 mm di corsa); è rivisto in tutte le sue parti, ha una nuova centralina e il doppio iniettore per farfalla a funzionamento sequenziale. Oltre alla versione di serie, viene introdotta anche la prestigiosa SPS più leggera di 9 kg rispetto all aversione base e con ben 123 cv che le consentono di raggiungere i 270 km/h di velocità massima. Costava 40 milioni di Lire e venne costruita in 800 esemplari. Nel 2000 arriva la 996R, versione estrema con il primo propulsore Testastretta prodotto dall’azienda bolognese: eroga 135 cv a 9500 giri ed una coppia di 102 Nm a 8000 giri. Per raffreddare al meglio il propulsore e per incrementare il coefficiente di penetrazione aerodinamica, viene modificata la disposizione delle prese d’aria. Sospensioni firmate Öhlins, nuove pinze freno, carene in carbonio ed un peso contenuto in 185 kg, hanno fatto salire il prezzo fino a quota 51 milioni di lire per 350 esemplari venduti su internet. Seguì un’altra produzione ridotta di altri 150 esemplari.

 

IL LEGAME TRA PILOTI E SERIE SPECIALE

Forse non tutti sanno che nel 1998, Ducati ebbe bisogno di omologare un nuovo telaio che permettesse l’installazione di un air-box più grande: definito Kyalami perché montato per la prima volta alla gara WSB sul medesimo circuito in Sud Africa, permetteva l’alloggiamento di un air-box maggiorato in grado di far salire maggiormente la potenza con l’air-box in pressione.

Perché il telaio venisse omologato, Ducati produsse 202 esemplari (commercializzati solo in UK di cui un esemplare andò a Carl ed uno in museo) della 916 SPS Fogarty Replica: oltre al nuovo telaio, aveva cerchi Marchesini a 5 razze e lo schema grafico identico alla moto con cui correva King Carl. Una seconda produzione di Foggy replica destinate all’Europa arrivo nel 1999 in 150 esemplari, ed una terza nel 2000 per altre 147 moto. Un’altra versione estremamente rara è la 916 Senna, prodotta per a prima volta nel 1995; il grande Ayrton – appassionato del marchio bolognese – diede l’ok alla produzione del modello con il suo cognome due mesi prima del tragico incidente di San Marino del 1994.

Seguirono altre due versioni: la Senna II e la Senna III prodotte rispettivamente nel 1997 e nel 1998. Le edizioni di Carl Fogarty e di Senna, assieme alla 916 SPa sono senza dubbio quelle più ricercate tra i collezionisti e di conseguenza quelle con le quotazioni più elevate. Le 916 invece, sono più facili da reperire, mentre le SP ed SPS sono poche e decisamente più costose. Attualmente ci vogliono circa 10.000€ per una 916 prima serie in buono stato, che diventano 6/7.000 per la più commerciale versione Biposto. Una Senna in perfetto stato la si trova difficilmente sotto ai 28.000€ mentre, una 996 base, si attesta sempre attorno ai 10.000€ destinati ad aumentare per le versioni SPS o R.

 

 

 

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